Page 221 - Antonio Canova
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come Meneghetto, era figlio di una zia dello scultore, Anna, e
viveva coi familiari di casa Canova, tanto che gli amici del
possagnese spesso terminavano le loro lettere inviando saluti e
auguri anche a lui oltre che all’abate Sartori (di cui il Manera
era coetaneo). Era stato avviato alla scultura e pare venisse
impiegato come assistente nello studio dell’illustre cugino prima
del 1812, quando fu mandato a Napoli a sovrintendere ai
preparativi per la fusione in bronzo del Cavallo, che all’epoca
era destinato a sostenere la statua di Napoleone. Su
commissione di Canova, dal 1813 scolpì busti per il Pantheon.
Lavorò anche in proprio avvalendosi della collaborazione del
formatore ufficiale di Canova, Vincenzo Malpieri. Alla morte del
possagnese ne avrebbe adottato il cognome, firmandosi
“Domenicus Manera Canova” su un busto conservato ora alla
Promoteca Capitolina.
3. La vicenda del colosso marmoreo, modellato nel luglio del
1814 e gettato in gesso nel febbraio del 1815 fu assai
travagliata: Canova avrebbe voluto eseguirlo a sue spese
(riprendendo in parte la figura colossale scolpita nel lato sinistro
della tomba vaticana di Clemente XIII) come suo grande
omaggio dell’arte alla fede, e il progetto architettonico era già
stato affidato a Valadier, allorché giunse il rifiuto dei canonici di
San Pietro. La gigantesca statua che lo scultore aveva in mente
di erigere, alta circa due metri, non fu mai realizzata in marmo.
Canova finì con lo scolpirla in misura ridotta e venderla,
opportunamente adattata (furono tolte la stola, la mitra e le
tavole della Legge iscritte sul cippo, mentre nel medaglione fu
inserito il ritratto della defunta) per la tomba della contessa
Sofia di Brownlow nella chiesa protestante di Belton.
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