Page 196 - Antonio Canova
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(*) Era dei Paolotti, e fu quegli che col Padre le Sueur della
stessa religione, e il P. Boscovich Gesuita dottissimi

  matematici scrissero intorno alla Cupola di S. Pietro che per
alcune fenditure si temeva che dovesse rovinare.

  Contro [questa] l’oppinione dei tre nominati matematici
scrisse l’eccellente matematico Bartolommeo Vanni

  fiorentino. Allo stesso oggetto nel 1743. fu chiamato a Roma
anche il Marchese Poleni celebre matematico

  dell’Università di Padova.
  I timori di rovina di detta Cupola insorsero sotto Innocenzio
XI. E fino d’allora versarono in tale argomento e il
  Cav. Bernini, come si può leggere nella sua vita, e il Cav.
Carlo Fontana nel suo Tempio Vaticano, e fino d’allora
  si giudicò che non v’era alcun timor di rovina.

1. Tommaso Temanza (Venezia, 1705-1789), architetto,
ingegnere e storico dell’architettura italiana, apparteneva ad
una famiglia di architetti. Aveva compiuto la prima formazione
presso lo zio Tommaso Scalfurotto, che insieme al Tirali aveva
inaugurato a Venezia la corrente neopalladiana del primo
Settecento, e ad essa si rifanno le sue poche opere
architettoniche che per il precoce accento neoclassico, derivato
dalla meditazione sul Palladio ma anche da dirette letture
dell’antico, furono all’epoca molto criticate. Studioso di
matematica, di geometria, di idraulica, operò anche come
ingegnere civile e militare al servizio della Repubblica Veneta, e
soprattutto come ingegnere idraulico, veste in cui svolse, fra il
1762 e il 1767, attività di consulente presso il papa Clemente
XIII a Roma. Il soggiorno nell’Urbe fu di grande importanza
per lo sviluppo dei suoi interessi eruditi e teorici:
l’approfondimento degli studi sul Palladio (di cui scrisse una
Vita, 1762), gli consentì di superare, come teorico
dell’architettura, gli schemi troppo rigidi del gusto classicista.
2 Francesco Milizia (Oria, Brindisi, 1725-Roma, 1798), a
Roma dal 1761, era venuto in contatto con la cultura
architettonica della capitale pontificia in un momento in cui
essa attraversava una crisi acuta. Crisi di cui Milizia, nutrito di
premesse classicistiche, attribuiva la responsabilità agli
architetti allora di moda, che gli parevano corrotti dal trionfare
del barocco. La violenza delle reazioni a tali posizioni (che gli
valsero l’immediata iscrizione al ruolo dei grandi negatori) fu
tale che la prima parte del suo trattato Roma. Delle belle arti
del disegno (1787), anche per la vivace polemica alimentata da
uno stile fantasioso (anche Quarenghi lo definirà “tanto
stravagante scrittore” in una lettera ad Alessandro Barca del 18
agosto 1808, cit. in Giacomo Quarenghi architetto a
Pietroburgo. Lettere e altri scritti, a cura di V. Zanella, Venezia,
Abrizzi editore, 1988, lettera n. 446, p. 326), non poté mai

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